giovedì 21 febbraio 2013

Definizione di fede

Sono tanti i motivi per cui è bello rileggersi tutta la Divina Commedia. Fra i tanti, credo sia bello considerare quest'opera come una specie di libro multimediale, un po' un metatesto.
Mentre la si percorre non ci può che venir voglia di scoprire e leggere le Metamorfosi di Ovidio, la storia di Roma, i discorsi di Cicerone, la Genesi, i Vangeli, i Salmi, le lettere di San Paolo, gli scritti dei Padri della Chiesa, San Tommaso, Sant'Agostino, Gregorgio Magno, San Bonaventura, la Metafisica di Aristotele, e così via...
Negli ultimi giorni sono incappato in una bellissima definizione di fede che Dante strappa alla Lettera agli Ebrei, scritta probabilmente da un discepolo di San Paolo. Pur avendo letto tutta la Bibbia, ammetto di essere scivolato su questa frase, senza accorgermi della sua immensa bellezza. Cos'è la fede? Chiede San Pietro a Dante. E Dante risponde italianizzando il latino. La fa come la nostra traduzione non è stata capace di fare. Fede è: sostanza di cose sperate. Quattro parole, tra cui una preposizione. Non prova, non garanzia, ma come dice il testo latino: substantia. Come fa un desiderio ad avere sostanza? Come fa un sogno ad essere reale se è solo un sogno? Come faccio a convincermi che sposerò la donna che amo? Come faccio a pensare che farò il musicista, il cantante, lo scrittore? Oppure anche più semplicemente un lavoro che mi piace? Come faccio ad essere sicuro che avrò figli che mi ameranno e che i miei amici mi staranno accanto quando avrò bisogno del loro sotegno? Come posso credere che mia madre un giorno guarirà?
E' questa, è solo questa la differenza fra sognare e aver fede, fra desiderio e atto di fede. Dante ci ricorda cosa è scritto in questa lettera. Io credo che la mia speranza di una vita eterna non sia solo una speranza, ma sia una cosa vera, reale. Il mio sogno ha una corazza, che la mia fede gli ha costruito intorno, e niente e nessuno potrà scalfirla.

mercoledì 13 febbraio 2013

Il Papa rinuncia.

Ero in macchina quando ho sentito la notizia.
Non mi sono quasi mai occupato di attualità nel mio blog, ma stavolta non posso evitarlo. Soprattutto perchè il tema della fede, della Scrittura, della Verità o della non Verità ha sempre costellato i miei post. Devo dire che la cosa mi ha molto rattristato, soprattutto in questo momento. Ho pensato subito ai miei amici, ai miei più cari amici . E' vero non sono un credente, ormai mi sto avvicinando all'idea che niente esista. Eppure le persone a me più care sono tutte convinti che Dio esista, che il Papa sia il rappresentante di Cristo in terra. Sono le persone che mi hanno dato di più nella mia vita, quelli che fanno il mio numero e mi chiamano per sapere come sto. Quindi il loro bene, fa bene anche a me.
Come devono essersi sentiti loro, ho subito pensato?
Mi è venuto in mente un discorso fatto con un frate a Roma all'inizio di quest'anno. C'erano lui e i miei amici. Ad un certo punto qualcuno ha chiesto se avesse senso aprire la Bibbia a caso, leggere un versetto e convincersi che in quel versetto Dio provi a parlarci guidando occhio e mano. "Assolutamente sbagliato", ha tuonato il frate, "La Chiesa rifiuta la divinazione".
Poi in macchina il mio migliore amico, sul viaggio di ritorno mi ha fatto questa confessione, "Ma se Dio in qualche modo non mi parla, a cosa vale la mia fede?".
Ecco il punto, nella scelta del Papa c'è una razionalizzazione che sta spogliando la Chiesa di senso. Con l'evolvere della scienza, il ruolo che essa occupa ha dovuto restringersi sempre di più. Prima la Terra che non è più il centro del mondo, poi il mondo che è relativo a chi lo guarda con la fisica quantistica, poi l'io che non è padrone dell'anima con l'avvento delle neuroscienze. Ora il Papa che non se la sente più, perchè la sua materia limitata e umana gli impedisce di sopportare il peso. Ma dove sta andando lo Spirito? Dov'è l'Anima che può sopportare la croce? Come può pensare la Chiesa di riempire di senso la vita degli uomini che credono in lei se non è capace di mostrare l'esempio del sacrificio? La sofferenza di un uomo che nonostante i limiti della carne continua fino all'ultimo giorno, all'ultima vibrazione della voce, a rassicurare il mondo che il miracolo della Fede può tutto? Forse, io posso anche non credere, ma se tutto il mondo si spogliasse di senso, di scopo, se tutti non credessero più in niente, credo che il mondo potrebbe crollare sotto il peso, quello sì, della morte dell'anima.

sabato 9 febbraio 2013

Cesare deve morire.

E' incredibile come alle volte alcune esperienze si mettono in fila e non sembrano mai casuali. Ho letto da poco il libro sul linguaggio della mente, e in uno dei miei post precedenti ho parlato del libero arbitrio e sulla necessità di fare un riflessione importante sul carcere e sulla pena che spetta ai condannati. Siamo proprio sicuri che la nostra mente, sottoposta ad un ambiente con stimoli diversi dal nostro, non avrebbe mai potuto portarci a commettere un atto da condannare? E' sempre così facile scagliarsi con chi sbaglia?
Forse verrà un tempo in cui i nostri posteri, fra quattrocento anni, guarderanno a noi con orrore osservando il modo in cui facciamo scontare le pene in carcere. Un po' come la schiavitù era un dato di fatto un tempo, e ora è vista come un'idea di pura inciviltà. Basta vedere questo film per accettare come dato di fatto quello che scriveva il poeta Withman: "Contengo moltitudini".  Questo è un film sulla redenzione, sull'idea che non esiste colpa che non può essere perdonata. O meglio, che l'animo umano avrà sempre una possibilità. Mi è spiaciuto molto che non abbia avuto la nomination all'oscar, ma ormai l'Italia, a quanto pare, non è giudicata più terra di grande cinema. Davvero un peccato. E' un film sulla forza sempre viva del teatro, sulla forza della parola, quella viva che trapassa il velo della paura, quella che non ha bisogno di una bella musica o di effetti speciali per svegliarci al nostro presente, e ricordarci che siamo uomini, fatti di ombra e luce.

venerdì 8 febbraio 2013

Il quadro più bello del mondo

 
Spesso facciamo l'errore di giudicare una mostra sul numero di quadri esposti. Sull'importanza degli autori scelti. Il mio professore di arte dai lunghi baffi mi diceva una cosa quando facevo le superiori: prima di vedere una mostra, preparatevi: scegliete dieci quadri, dieci quadri da vedere, prima ancora di metterci piede. E' quello il numero massimo che la mente ricorda.
Ho visto questa mostra da poco: Da Boticelli a Matisse, volti e figure. Sono le mostre che organizza Goldin. Ne ho viste diverse a Brescia, e se c'è qualcuno che ti sa emozionare con l'arte quello è proprio Goldin. Una mostra deve sempre essere un racconto, un accostare i quadri in una sala con sapienza, coinvolgendo lo spettatore in un racconto vivo. Goldin ha una voce che ti sa avvolgere mentre guardi i quadri che lui ama. E' il motivo per cui acquisto sempre anche l'audioguida. Poi alla fine della mostra, ecco la solita stoccata finale.
Questo quadro mi ha emozionato in una maniera che solo lui può spiegare, però ci voglio provare. L'autore è un pittore americano e si chiama Andrew Whieth. Una donna è seduta all'ingresso di una casa. La porta è aperta, la schiena appoggia contro la porta spalancata, i piedi carezzano l'erba sull'ingresso. Fuori una luce accecante la investe. E lei ha lo sguardo perso lontano, verso quello che sappiamo essere il grande mare. E' la donna che per Whieth ha rappresentato la più grande fonte di ispirazione della sua vita. Una donna che pur non avendo la possibilità di usare le gambe si aggirava per la casa e il grande giardino con la sola forza delle braccia, come un insetto, perchè niente doveva esserci fra il suo corpo e la terra. Questo è un quadro con una forza incredibile. C'è dentro tutto il limite dell' essere umano. L'incapacità di far combaciare l'infinito dentro di lui, con l'infinito che gli urla, ogni giorno, fuori da lui.
 
Andrew Wyeth Christina Olson, 1947.