lunedì 23 giugno 2014

Il teatro americano e la rosa tatuata.


Ho sempre avuto un debole per il teatro americano. Ricordo da ragazzino di aver assistito ad una rappresentazione di "uno sguardo dal ponte". Ancora oggi rimane il miglior spettacolo che abbia mai visto. C'era il grande Michele Placido, un'interpretazione magistrale. Da lì il passo a "Morte di un commesso viaggiatore" è stato rapidissimo. Ho sentito che una importante rivista americana (se non sbaglio il Times) ha stilato una classifica delle 100 commedie più importanti del 900. Al primo posto c'era Sei personaggi in cerca d'autore, il che mi trova d' accordissimo. Al secondo posto c'era proprio Morte di un commesso viaggiatore. Insieme ad Arthur Miller, Tennesse Williams è il grande autore del dramma americano. L'altro giorno ho voluto vedere la rosa tatuata, il bellissimo film con Anna Magnani e Burt Lancaster. 
Mi sono chiesto dove si nasconde tutto il fascino di questi drammoni americani. Il fatto è che proprio come in "uno sguardo dal ponte" la dinamica familiare viene totalmente esplorata. C'è sempre un personaggio che costruisce la sua vita su un'illusione, una convinzione, un credo incrollabile. Può essere il sogno di diventare qualcuno e di poter emergere se si costruisce la propria vita sul sacrificio, può essere l'amore su cui basare una intera esistenza: la fede in un uomo, una donna, la fede nella famiglia, nelle proprie radici, nella religione, nelle tradizioni. Non è un caso che l'emigrazione sia così importante. L'emigrato non comincia una nuova vita senza dimenticare la precedente, si porta appresso il suo bagaglio, le sue convinzioni e le sue certezze. Ad un certo punto tutto crolla. La spinta della modernità così spregiudicata e feroce fa a pezzi tutti, senza eccezioni. Sono martiri del proprio passato i personaggi di Arthur Miller e Tennesse Williams, martiri dei loro stessi sogni, dei propri amori, dei propri figli, di chi li ha generati e messi al mondo. Credere nel mondo e venire sbranati dallo stesso mondo in cui abbiamo creduto così tanto. E' lì che si consuma il dramma che tanto ci affascina. 

giovedì 12 giugno 2014

Il film più bello dell'anno: le meraviglie.


Credo che uno dei fotogrammi che mi resteranno impressi quest'anno sarà senza dubbio questo: una famiglia abbracciata, stessa su un grande sacco a pelo, nella terra di fronte alla propria casa. Abbracciata nel tentativo di trattenere un'innocenza e un credo che la società, con la sua dirompente macchina trasformatrice e divoratrice, non può più permettersi di accettare. Adoro i film essenziali, nello stile, nel linguaggio, nella forma. Le storie che funzionano ormai devono avere sempre alla base due ingredienti fondamentale: un mestiere perduto e un luogo suggestivo. Una famiglia di apicoltori cerca così di vivere "totalmente dentro alle cose". E' questa l'accusa che una psicologa tedesca muove alla fine del film. Perché non si può vivere più dentro alle proprie cose, ai gesti semplici, a un'attività innocua, a un mestiere bellissimo, senza venire per questo sradicati dal mondo come erbaccia malata? 

mercoledì 4 giugno 2014

Il male di crescere: le più belle pagine nella storia della letteratura.



Non si può liquidare "Lettera al padre" così, senza una citazione, un estratto. Quest'anno ho imparato un termine "superstizione parentale". Significa che non è vero che tutte le colpe debbano per forza ricadere sui padri. Significa insomma che c'è qualcos'altro a determinarci, che non si può convincersi di essere quello che si è per colpa di qualcun altro. Se non si è soddisfatti della propria vita bisogna cercare le ragioni in noi stessi. Allora eccola qui tutta la superstizione parentale. Tutte le colpe che buttiamo sui nostri genitori Kafka le scrive, come un vero amanuense dell'anima. 
Allora non mi sembra più di leggere di un padre vero, ma di leggervi una figura mitica, ancestrale, perduta nella memoria dell'esistenza dell'uomo. Il male di crescere nel nostro tempo ha qui il suo vero principio. 




In questo modo il mondo per me risultò diviso in tre parti: una in cui vivevo io, lo schiavo, sotto leggi che erano state escogitate soltanto per me e che inoltre, non sapevo perché, non ero mai in grado di rispettare completamente; poi un secondo mondo, infinitamente distante dal mio, in cui vivevi tu, impegnato a governare, impartire ordini e andare in collera se non erano eseguiti; e infine un terzo mondo, dove il resto degli uomini vivevano felici, liberi da ordini e obbedienza.

Quello che tu dovesti conquistare lottando, noi l’abbiamo ricevuto dalla tua mano, ma la battaglia per la vita di fuori, che tu potesti affrontare immediatamente e che naturalmente non è stata risparmiata neppure a noi, noi abbiamo dovuto combatterla solo più tardi, con una forza rimasta infantile in età matura

Di fronte a te avevo perduto ogni fiducia in me stesso e conseguito in cambio uno sconfinato senso di colpa. 

La mia decisione per una ragazza non significava niente per te. Tu hai sempre represso (inconsciamente) la mia forza decisionale e adesso credi (inconsciamente) di sapere quanto valesse.


Il pensiero che stava alla base dei due tentativi di matrimonio era del tutto corretto: mettere su casa, divenire autonomo. Un pensiero che a te è simpatico, solo che in realtà succede come in quel gioco in cui uno tiene stretta la mano di un altro, più forte che può, e gli grida: "Vai, vai, perché mai non vai?". E nel nostro caso tuttavia questo è stato complicato dal fatto che tu hai da sempre pronunciato sinceramente quel "Vai!", ma altrettanto da sempre, senza saperlo, mi hai trattenuto o più esattamente represso soltanto in virtù del tuo essere.

Ciò è rivelato dal fatto che, dal momento in cui decido di sposarmi, non riesco più a dormire, la testa mi arde notte e giorno, non vivo più, mi aggiro barcollando disperato. A dire il vero non sono le preoccupazioni a provocarmi questo stato, per quanto date la mia malinconia e la mia pedanteria esso sia accompagnato da innumerevoli preoccupazioni, ma queste non sono l'elemento decisivo, completano come vermi il lavoro sul cadavere, ma è altro a colpirmi in maniera decisiva. E la pressione generica dell'angoscia, della debolezza, del disprezzo per me stesso. 

E come se uno fosse prigioniero e non avesse più intenzione di fuggire, cosa forse possibile, ma soltanto, e a dire il vero contemporaneamente, l'intenzione di trasformare la propria prigione in un castello. Se fugge, però, non può più trasformarla, e se la trasforma non può fuggire.