giovedì 9 luglio 2015

Signori e signore, ecco il terremoto della letteratura italiana: i Canti del Caos.

Dopo quasi due mesi questa enorme montagna è stata scalata. Ho visto la cima. Questo è l'Everest e la fossa delle Marianne. Il vertice e l'abisso della letteratura italiana. 
Ho sempre pensato che ci sia una sottile magia nel modo in cui i libri ci scelgono: esiste un nodo preciso che avvolge i libri ai propri lettori. I Canti del Caos è un libro che non si può consigliare certo a un amico, i Canti del Caos è un libro che bisogna scegliere di leggere. Una sfida che si può solo accogliere, senza pregiudizi, con mente aperta, anzi totalmente divaricata. 
Il momento in cui mi ci sono tuffato era perfetto, lo puoi affrontare solo in un periodo così: quando senti che niente ha davvero senso, quando sei perso in un oceano di caos, dove la vita si spezza in mille direzioni e tu non sai più quale percorrere. Ossessione, paura, sgomento, delirio, pornografia, incubo e distruzione. Deviazione e perversione.
Quando ho cominciato a leggerlo, mi sono reso conto che le cose attorno a me non si muovevano più: il tempo in cui le cose sono sospese si ferma, si immobilizza. E' questo lo sforzo immane di Antonio Moresco: calare il lettore in un universo costellato di metafore, personaggi, ambienti, dove le coordinate di spazio e tempo con cui le narrazioni si costruiscono da sempre vengono completamente spazzate vie. Centinaie di pagine dove nulla si muove, anzi tutto vorticosamente, distruttivamente, incoerentemente, si avvolge su se stesso senza andare davvero da nessuna parte. 
Basta elencare gli aggettivi che più si ripetono nel romanzo, non romanzo. Arrovesciato, scoppiato, sfuocato, immobilizzato, sbarrato. Ecco come si può descrivere questo libro. 
Ci inorridisce, ci sbrana, ci imbarazza, ci disgusta. Ma ci fa anche sentire terribilmente vivi, ci rende partecipi di quel senso di vuoto e di caos che imbriglia l'essere umano. Perchè siamo tutti illusi che le nostre vite abbiano un senso, di appartenere a un disegno. In realtà non apparteniamo a nessuno e nessuno ci appartiene. 
I canti sono perle dure e scabrose, ma affascinano nella ricerca spasmodica di un linguaggio che stritola il lettore nelle fauci dell'autore. Verso la fine Moresco ci invita a cogliere tutto il senso di questo enorme esperimento linguistico durato per lui ben quindici anni: 

Muovendomi attraverso questa misera cosa cui è stata la ridotta la letteratura, che è invece una fessura, una cruna attraverso la quale una nuda voce increata può ancora parlare alla propria specie arrivando fino alle sue strutture più profonde e più esplosive e segrete, nella generale e portentosa chiusura di spazi della vita biologica, sociale e mentale dell'uomo, se non sta al suo posto, se si carica nel suo inarrestabile andare di ogni possibilità e potenzialità, di ogni tensione e invenzione e precognizione e pensiero, se si apre a fondo, si lacera, si spalanca, si squarcia e va a esplorare, a occupare e a forzare in questo incontenibile e scaraventato movimento anticipato e increato la dimensione infinitamente più vasta in cui è contenuta e serbata.

Nessun commento: